Tuesday 16th April 2024,
Pinguinoeconomico

ARABIA SAUDITA – UN ALTRO POSSIBILE CIGNO NERO PER L’ECONOMIA MONDIALE

Due settimane fa, il governo dell’Arabia Saudita ha annunciato che a settembre emetterà obbligazioni internazionali in dollari. Nella storia del regno saudita si tratta della prima emissione di debito pubblico. Gli sceicchi arabi, detentori delle più grandi riserve petrolifere al mondo, sembrano a corto di denaro, un evento impensabile. Solo nel 2011 la monarchia saudita disponeva di un surplus fiscale superiore al 20% del Pil con un debito pubblico inesistente, seduta su riserve valutarie pari a 700 miliardi di dollari. Ora la fortuna è completamente girata, sin dal collasso delle quotazioni petrolifere da metà 2014.

Nel 2015, il surplus si è trasformato in deficit fino al 16% del Pil, mentre il debito pubblico è salito al 10% e le riserve sono calate al di sotto dei 600 miliardi.

Il Regno è stato costretto anche ad applicare alcuni tagli alle spese, una misura non gradita nel Paese del lavoro garantito a vita nel settore pubblico.

Anche la Saudi Aramco, la prima compagnia petrolifera mondiale, prevede di emettere un’obbligazione per la prima volta nella sua storia entro fine 2016.

Negli ambienti ben informati, la teoria dell’improvviso declino del prezzo del petrolio viene imputata ad una strategia orchestrata dai sauditi per estromettere dal mercato i produttori americani dello “shale oil”, pensando che non siano in grado di sopravvivere operando in perdita al di sotto del prezzo di 60 dollari al barile.

Tuttavia, il piano non ha funzionato in quanto nemmeno i sauditi hanno fatto i conti con la potenza di fuoco della Federal Reserve la quale, mantenendo i tassi a zero, ha consentito al sistema bancario statunitense di continuare a finanziare i produttori dello shale oil. Questi ultimi hanno cercato, con successo, di ridurre significativamente i costi con il risultato che, malgrado la chiusura di numerosi pozzi di petrolio, la produzione si è ridotta in misura marginale.

A due anni esatti dall’avvio della caduta delle quotazioni petrolifere, la strategia saudita è diventata un boomerang e gli speculatori stanno affinando le loro armi. L’obiettivo è scardinare il cambio fisso tra il dollaro ed il Riyal, la moneta saudita. Questo accordo monetario tra i due governi è durato oltre trent’anni ed entrambe le economie ne hanno ampiamente beneficiato.

Il sistema del “Petrodollaro” funzionava così: gli americani importavano grandi quantità di petrolio dall’Arabia Saudita ad un favorevole cambio fisso per i sauditi ($0,26 per un ryal). In cambio, gli arabi si sono impegnati a reinvestire i profitti nell’acquisto di Treasuries, dietro la protezione militare degli Stati Uniti nella regione Medio orientale. Le transazioni sono state tenute nascoste fino a maggio 2016, senza che nessuno dei due Paesi rivelasse il coinvolgimento saudita nel finanziamento del debito pubblico americano.

Tuttavia, negli ultimi anni, sono sorte diverse crepe nelle relazioni diplomatiche tra i due Paesi. Innanzitutto, grazie al boom dello shale oil ed all’incremento delle quote di produzione di Iraq ed Iran, gli Stati Uniti sono sempre meno dipendenti dal petrolio saudita. In aggiunta, il Tesoro americano ha rivelato l’ammontare del debito nelle mani del regno saudita: 120 miliardi di dollari, ai quali è ragionevole aggiungerne altri 100 detenuti offshore. Nel frattempo, il Senato americano ha autorizzato le vittime del 11 settembre 2001 – attentato delle Torri gemelle – a citare il Regno Saudita per l’eventuale responsabilità nell’attacco terroristico.

I numeri descritti sul deterioramento dell’economia medio orientale fanno, tuttavia, ancora sorridere qualora paragonati ai problemi delle travagliate finanze pubbliche di diversi Paesi dell’Eurozona. Una stima approssimativa evidenzia che le attuali riserve valutarie saudite siano sufficienti a Ryad per respingere un attacco speculativo contro la propria divisa, almeno per i prossimi diciotto mesi, qualora il prezzo del petrolio rimanga al di sotto dei 50 dollari.

In realtà, il cospicuo ammontare delle riserve valutarie non è sufficiente a difendere il cambio fisso e gli speculatori lo sanno benissimo. La Banca Centrale deve vendere dollari, monetizzando i titoli di stato in portafoglio, ed acquistare riyal. Tale manovra corrisponde ad una vera politica monetaria restrittiva, in quanto riduce la quantità di moneta in circolazione, provocando conseguenze recessive ed effetti deflazionistici. In aggiunta, anche il sistema finanziario viene danneggiato da un incremento delle sofferenze bancarie. Questo fenomeno si è già verificato con la contrazione della base monetaria e dei depositi bancari al di sotto dei 400 miliardi di dollari.

Ora il mercato scommette su un incremento del debito pubblico fino al 50% del Pil nei prossimi quattro anni e sullo scardinamento del cambio fisso con il dollaro.

Nel caso in cui il prezzo del petrolio non risalga almeno al di sopra dei 60 dollari al barile, la monarchia saudita, vecchia e molto pericolante sotto gli attacchi integralisti, non rischierà un aumento della disoccupazione e rivolte sociali. Più semplicemente, seguirà l’esempio della Cina dello scorso agosto, la quale ha preferito abbandonare il sistema di cambi fissi.

Tuttavia, la caduta del Petrodollaro potrebbe potenzialmente avere un impatto significativo sull’intera economia globale con la caduta delle quotazioni del greggio

e conseguenze severe anche sulle economie emergenti.

Anche l’Eurozona pagherebbe dazio pesantemente con un ulteriore declino nel commercio internazionale, provocando una nuova recessione che si estenderà anche alle altre economie sviluppate, generando un potenziale nuovo cigno nero.

Infine, l’impianto della moneta unica sarebbe di nuovo scosso nelle sue fondamenta dalla dissoluzione di un altro sistema di cambio fisso, l’ennesimo, oltre a quelli che cadranno successivamente alla realizzazione della Brexit.

Like this Article? Share it!

About The Author

Leave A Response