STORIA. Alla fine della seconda mondiale i “cocci” della penisola balcanica furono tenuti insieme dal regime filosovietico del maresciallo Tito che governò come un dittatore riuscendo a gestire con il proprio carisma i desideri di secessione delle singole etnie costruendo una federazione di stati. A seguito della invasione dell’Ungheria da parte delle truppe sovietiche nel 1956 e della primavera di Praga nel 1968 il regime si disallineò dalli linea dura di Mosca per privilegiare l’unità interna avvicinandosi alla cultura europea.
Alla morte del dittatore nel 1980 ci furono già le prime avvisaglie dei movimenti di indipendenza verso Belgrado. I successori politici del Maresciallo non furono in grado con la diplomazia di contenere i movimenti indipendentisti nati in tutta la penisola balcanica. La Slovenia ottenne l’indipendenza a metà del 1991 dopo una guerra lampo di 10 giorni e pochi morti. Molto più lungo fu invece il processo di separazione della Croazia che richiese quattro anni di guerra fratricida per la presenza di diverse comunità serbe che Belgrado intendeva proteggere. La guerra si spostò in Bosnia e coinvolse anche la comunità musulmana che fu massacrata sia dai serbi che dai croati ed in Kosovo dove la Serbia difendeva alcune enclavi minoritarie dal resto della popolazione (circa il 90%) di etnia albanese. Intervenne poi la Nato nel 1994 per fermare i massacri dei nazionalisti serbi guidati dal dittatore Milosevic e dai suoi sanguinari generali Mladic e Karazdic. Tutti e tre sono stati catturati e, a parte il primo che è deceduto in carcere, sono ancora sotto processo al Tribunale dell’Aia per crimini di guerra. Tutti ricordiamo infatti il massacro di oltre 8.000 musulmani a Srebrenica con la complicità delle forze Nato che non fecero nulla per evitarlo. La guerra finì nel 1995 contando 94.000 vittime con gli accordi di Dayton che divisero fisicamente le etnie serbe, croate e musulmane in alcuni territori ad alto rischio di scontri. A 20 anni di distanza le tensioni rimangono molto elevate in queste zone di confine e richiedono il continuo dispiegamento delle forze di pace ONU.
Fatta questa premessa storica analizziamo la storia economica delle tre principali economie che compongono la ex federazione balcanica: Slovenia, Croazia e Serbia.
SLOVENIA – Grazie ad un regime democratico ha registrato una sostenuta crescita alimentata dal turismo, investimenti immobiliari e case da gioco. Ma lo sviluppo è stato troppo rapido con un eccesso di credito da parte delle banche locali che hanno finanziato aziende pubbliche improduttive e investimenti immobiliari ad alto rischio molti dei quali sono insolventi. Dal 2008 i fondamentali economici si sono sensibilmente deteriorati anche per l’adesione del Paese alla moneta unica nel 2007 che ha azzerato la possibilità della banca centrale locale di rilanciare in modo autonomo, attraverso svalutazioni competitive del cambio, l’economia. Oggi la Slovenia ha sofferenze bancarie pari al 22,5% del PIL e si finanzia sul mercato del debito a tassi decennali che hanno raggiunto il 6,75% (l’Italia ora al 4,2%) dal 5,87% di inizio anno e dopo aver superato il 7% ad Aprile nel picco della crisi di Cipro. Da oltre un anno si parla della forte probabilità che il governo sloveno chieda un piano di salvataggio alla UE ma per ora cerca di resistere anche se crescono i timori che debba alzare bandiera bianca. Nelle casse statali ci sono 3mld di euro ma la ricapitolazione delle banche costa almeno 4,5mld. I dati macroeconomici non sono poi incoraggianti. Nella prima decade di ottobre il governo ha rivisto al ribasso le previsioni negative di crescita al -2,6% per il corrente anno (precedente stima -1,9%) e per il 2014 a -0,7% (+0,5%)
CROAZIA – Dal primo luglio è il 28esimo membro della Comunità Europea e questa è forse l’unica buona notizia per il Paese. La disoccupazione ha sfondato il 20% dal 17% del 2010 e quella giovanile è al 51%, seconda solo a Grecia e Spagna. Il Pil è crollato nel triennio 2009-2011 del -7,2% e scenderà di un altro -2% quest’anno chiudendo in recessione per il quinto anno consecutivo. Il 17% del Pil proviene dal turismo. Il deficit è al 4,7% anch’esso sopra i parametri (3%) richiesti dall’Europa. Il debito è ancora contenuto in proporzione al Pil (60%) ma sta salendo in modo vertiginoso con la recessione (41% nel 2010). Il rendimento del titolo decennale richiesto dal mercato è pari al 4,9%. In queste condizioni il Paese non chiederà di aderire all’euro, sperando nei vantaggi di disporre di una propria divisa. In realtà i margini di manovra sono per ora molto contenuti con un tasso di inflazione al +3,3% ben al di sopra della media europea del +1,4%.
SERBIA – Anch’essa oggetto della stampa finanziaria ad inizio ottobre per la possibile richiesta di aiuto urgente al FMI per sopravvenute ed ingenti necessità di liquidità immediate pari a 1,5mld per evitare il default. Il rendimento richiesto dagli investitori sul titolo decennale ha raggiunto il 7% con un picco al 7,46% il 10 settembre, superiore anche a quello di Nigeria e Ungheria. Il deficit si attesta all’8,3% del PIL a causa di una apparato statale sovradimensionato e ampiamente corrotto.
I colloqui sono ripresi dopo essere stati interrotti a maggio scorso per la scarsa volontà del Paese di adottare le riforme richieste. Gli attuali fondamentali sono la sintesi di vent’anni di economia di guerra, sanzioni, iperinflazione e massicce svalutazioni. La Serbia ha bisogno di 4mld di euro entro fine giugno per finanziare il debito in scadenza ed il crescente deficit. Dopo due recessioni in 3 anni è tornata la crescita con un +2% quest’anno ed un +2,5% previsto per il prossimo. Stiamo parlando di una economia di soli 29mld contro i 44 prodotti dalla Croazia. La disoccupazione raggiunge il 25%.
Il Paese può continuare a finanziarsi sui mercati internazionali ma a costi troppo elevati. L’accordo con il fondo costringerebbe il Paese ad una serie di riforme necessarie quali requisiti per aderire alla Comunità Europea.
ALTRI STATI – Poche le notizie che filtrano sulle altre nazioni nate dalla disgregazione della Jugoslavia. Kosovo e Bosnia son ancora dilaniate da conflitti etnici risolti solo a tavolino (accordi di Dayton) ma che fomentano sporadici disordini e non agevolano la ripresa economica. Il tasso di disoccupazione è al 47% in Kosovo e al 40% in Bosnia numeri che si registrano solo in alcuni Paesi africani sottosviluppati (Congo 50%) o sovrappopolati (Kenya 40%). Poco o nulla si conosce del Montenegro spesso alle cronache come porto di contrabbando che ha sostituito molti dei traffici illeciti prima gestiti dall’Albania.
Il denominatore comune di tutti questi Paesi è la necessaria adozione di pesanti misure di austerità con tagli ai bilanci per sopravvivere e sottostare alle condizioni degli organismi internazionali in caso di richiesta, molto probabile, di piani di salvataggio.