PREMESSA
- Rispetto ad Usa ed UK, l’Europa continua a ridurre i suoi debiti
- La Germania è in grado di applicare politiche fiscali espansive
- La Bce ha poco margine sulla sua politica monetaria ultra espansiva
- I tassi negativi stanno costando alle banche europee 7,5 miliardi di euro all’anno
L’espansione economica nel Vecchio Continente prosegue, ma al ritmo più basso degli ultimi quattro anni. Il settore manifatturiero è in declino da quattro mesi, ma non ad un passo che possa lasciare intravedere la prossima recessione.
Il settore dei servizi continua, invece, a crescere ma ad una velocità inferiore rispetto al 2017 ed al 2018.
Ad eccezione della Francia, l’Europa rimane politicamente frazionata, con coalizioni molto fragili in diversi Paesi e partiti euro scettici o nazionalisti, che avanzano sia nei consensi che nei suffragi.
DATI MACRO ECONOMICI
Il tasso di disoccupazione è ai minimi da undici anni ed i debiti complessivi scendono.
Nello specifico, il rapporto tra debiti (pubblici e privati) e Prodotto Interno Lordo è sceso da un massimo del 265% rispetto al Pil nel 2015 al 247% del 2018. Nello stesso periodo, negli Stati Uniti è risalito dal 248% al 250% ed in Gran Bretagna dal 252% al 257%.
Riduzioni dei debiti sono particolarmente significative in Irlanda, Portogallo, Spagna, Austria e Germania.
I livelli di debito stanno scendendo, sebbene in misura inferiore, in Belgio, Finlandia, Grecia, Italia ed Olanda, mentre quelli francesi si sono stabilizzati nell’ultimo triennio.
In teoria, la combinazione di tassi di interessi estremamente bassi e la discesa dei rapporti di debito aprirebbero la strada a nuovi stimoli fiscali. Il problema è che in prima linea ci sono i Paesi meno virtuosi, tra i quali l’Italia, che ha un rapporto debito pubblico/Pil al 132% ed uno spread con il Bund tedesco elevato in virtù della minaccia dell’attuale governo di applicare politiche fiscali sempre più espansive.
La Germania è il Paese che è nelle condizioni migliori per avviare uno stimolo fiscale, ma non vi ha ancora provveduto. Malgrado il rapporto debito pubblico sul Pil sia sceso dal 65% al 61% nel corso del 2018 e si attenuerà ulteriormente nel primo semestre 2019, non ci sono segnali impellenti di nuove manovre fiscali o di addizionali spese in infrastrutture pubbliche.
Sembrerebbe naturale che un Paese che può finanziarsi a tassi negativi fino a 15 anni possa abbassare la corporate tax dal 30% attuale alla media OECD del 23% oppure abbassare le tasse sui redditi privati per attirare capitali in fuga dalla Brexit.
Con un calo dei consensi dei partiti della coalizione a favore dei verdi ed un surplus di bilancio del 2%, il governo teutonico potrebbe spostarsi verso politiche fiscali più aggressive per recuperare parti dei consensi, in vista delle elezioni politiche nell’ottobre 2021, che vedranno la fine dell’era Merkel.
Poiché il Pil tedesco rappresenta il 30% dell’Eurozona, ogni politica fiscale espansiva adottata andrebbe a beneficio anche degli altri Paesi dell’unione.
Sicuramente la Germania non modificherà le propria politica fiscale sulla spinta di pressioni populiste, come sta avvenendo in altri Paesi, tra i quali l’Italia.
Tuttavia, il ritorno alla supremazia della politica fiscale su quella monetaria potrebbe dare una spinta alla stagnante ripresa e consentire poi una rapida inversione, con l’incremento successivo delle tasse per mantenere il rigore nei conti pubblici.
LE DIFFICOLTA’ DELLA BCE
La Banca Centrale europea dopo aver aumentato il suo bilancio dal 20 al 40% del Pil dal 2014 al 2017 e dopo cinque anni di tassi negativi sui depositi bancari, è stata incapace di spingere l’inflazione al di sopra del tasso programmato del 2%, al di sotto del quale staziona da 16 anni.
Qualora l’economia dell’Eurozona dovesse cadere in recessione, è difficile immaginare che cosa possa fare la Bce per rivitalizzarla. Forse uno dei passi necessari è quello più imprevisto: aumentare i tassi di interesse. Solo riportando il tasso sui depositi bancari dal -0,40% allo zero farebbe risparmiare 7,5 miliardi alle Banche dell’eurozona all’anno, una tassa che non è servita ad incoraggiare un numero più elevato di prestiti e sviluppare una maggiore crescita economica.
In questo scenario complicato, Draghi non sembra disponibile ad abbandonare la sua politica di tassi negativi prima del suo addio ad ottobre. Forse questo nuovo esperimento sarà intrapreso dal suo successore.
Anche negli Stati Uniti i primi rialzi dei tassi nel 2015 e nel 2016 non hanno danneggiato la crescita ed anzi la normalizzazione dei tassi verso l’alto ha solo portato beneficio al sistema bancario domestico. La stessa cosa potrebbe accadere in Europa, quando la Bce deciderà di seguire lo stesso esempio.