Il recente cambiamento di direzione di alcune Banche Centrali ha riportato in auge la discussione tra coloro che sono favorevoli ad una politica monetaria ultra espansiva, ormai nota come il Quantitative Easing, rispetto agli ortodossi che contestano questi metodi.
Nell’ultima decade, gli interventi di politica monetaria ultra espansiva sono stati ampiamente utilizzati da diverse Banche Centrali con risultati non sempre soddisfacenti o comunque inferiori ai trilioni di assets impiegati.
Tra gli esperimenti sicuramente più deludenti si annovera quello giapponese, malgrado l’iniezione di liquidità di 70 miliardi di dollari mensile nel sistema finanziario, durante gli ultimi quattro anni, attraverso l’acquisto di titoli del debito pubblico nipponico.
Il Paese del Sol Levante è rimasto l’unico nel quale l’indice dei prezzi al consumo non riesca neanche minimamente ad avvicinarsi all’obiettivo delle Banche Centrali, la famosa soglia del 2%.
La vera causa di questo ormai conclamato fallimento della politica monetaria aggressiva della Banca del Giappone è la deflazione o meglio l’assuefazione ormai ultra ventennale dei giapponesi alla discesa dei prezzi ed a rinviare acquisti, che saranno in tempi futuri meno cari.
La stagnazione dei consumi ha, di conseguenza, neutralizzato l’impatto dei tassi negativi e di altri stimoli fiscali, che si pensava potessero spingere al rialzo la crescita economica.
La sintesi di questa premessa è che i giapponesi amano o si sono abituati a risparmiare e la conseguenza è piuttosto drammatica.
Il Giappone rimane definitivamente impantanato in una crescita modesta, nonostante questo lungo ed aggressivo esperimento con tassi ultra bassi e già da un decennio ha subito il sorpasso della Cina in termini di Pil globale.
Un quarto di secolo dopo lo scoppio della bolla immobiliare e del picco del mercato azionario, mai più ritoccato, la popolazione che ancora sopravvive dalla prima crisi nipponica ha conosciuto solo salari stagnanti e deflazione, una condizione nella quale i prezzi continuano a scendere invece di salire.
Questa situazione sembra diventata insormontabile anche per la più espansiva politica monetaria, una lezione per altri Paesi che stanno seguendo lo stesso percorso di stimolo così aggressivo.
Il Giappone, negli ultimi quattro anni, ha stampato trilioni di yen, portando i tassi fino in territorio negativo. Tuttavia, il Paese è tornato in deflazione durante lo scorso anno e solo recentemente i prezzi sono rimbalzati al di sopra dello zero.
Il governatore Kuroda è stato costretto a posticipare all’infinito l’obiettivo del due per cento del tasso di inflazione nipponico, a causa della assenza di rincari salariali ed una continua discesa dei prezzi dei beni primari.
Il modesto rimbalzo dello 0,1% nel mese di febbraio potrebbe essere un evento non strutturale, in virtù dei mesi consecutivi di deflazione realizzati nel 2016 ed anche nel gennaio del corrente anno. La lieve accelerazione dello scorso mese è stata anche indotta dall’apprezzamento del dollaro rispetto allo yen, dall’elezione di Trump in avanti, dalla crescita dei prezzi petroliferi, ma non dal miglioramento dei fondamentali economici domestici.
In pochi credono, infatti, nella possibilità che il Giappone possa tornare a crescere in maniera robusta e generare un aumento dei prezzi in tempi brevi.
COMMENTO
La deflazione provoca una spirale depressiva nell’economia di un Paese, in quanto ne mina la crescita. Le aziende guadagnano di meno, di conseguenza riducono gli investimenti, tagliano i salari e smettono di assumere. In tale contesto incerto, i consumatori rallentano le spese, temendo questa spirale ribassista.
L’idea dei tassi negativi è quella di inondare di liquidità il mercato per ingolosire i consumatori ad indebitarsi a tassi molto bassi, per riavviare la ripresa dei consumi.
Tuttavia, le aspettative di deflazione sono diventate la normalità in Giappone, spingendo sia le aziende che i consumatori a ridurre le spese, indipendentemente dalle azioni aggressive della Banca Centrale.
Non solo, la paura di tempi peggiori spinge i giapponesi ad incrementare i risparmi.
Il problema sono i giovani tra i 20 ed i 34 anni, nati nel periodo già di deflazione in seguito agli anni 90. Dalla loro nascita non hanno mai assistito ad incrementi salariali, ascese del mercato azionario o ricevuto interessi sul deposito bancario. Spendono solo in viaggi, consapevoli che le esperienze non perdono valore, cosa che accade invece a qualsiasi altro bene materiale acquistato.
In definitiva, questa nuova classe sociale è abituata a vivere con poco e rifugge qualsiasi eccesso.
Una ricerca della Banca del Giappone dello scorso ottobre ha riscontrato che solo il 5% degli intervistati spenderà di più quest’anno, rispetto al 48% che, invece, intende ridurre i consumi.
Anche le aziende giapponesi sono sedute su due trilioni di dollari di liquidità. Le società non crescono ed hanno personale molto anziano che non possono licenziare, impedendo l’assunzione di giovani che entrano nel mercato del lavoro.
Le aziende del comparto automobilistico, alcolici e cosmetici sono state costrette a spostare la loro comunicazione verso la popolazione anziana che spende di più rispetto ai giovani, in quanto figlia della bolla e degli eccessi degli anni ottanta.
Infine, la continua discesa dei prezzi riduce sensibilmente i margini di guadagno delle aziende che chiedono, ormai in coro, alla Banca Centrale di interrompere questa politica monetaria ultra espansiva i cui effetti sembrano un autentico suicidio.