Per la prima volta nell’ultimo decennio nella classifica delle più grandi aziende mondiali per capitalizzazione non è inserita nessuna azienda europea tra le prime dieci della lista.
Solo sulla prima c’è convergenza di opinione e facilità nell’indicarla. Si tratta infatti di Apple, il leader mondiale nella produzione degli smartphones, che capitalizza oltre 700 miliardi di dollari, quanto il Pil della Svizzera o la spesa per armamenti annua negli Stati Uniti.
Quello che, tuttavia, sorprende è il numero di imprese statunitensi presenti che occupano le prime undici posizioni della lista. La dodicesima è una società cinese, seguita da altre due alla quattordicesima e quindicesima posizione, le notissime Alibaba – leader nel commercio elettronico – e ICBC, la prima banca del Paese. E’ necessario, invece, scendere alla diciannovesima posizione per incontrare la prima società europea. Si tratta della svizzera Nestlè, seguita dall’inglese Royal Dutch Shell. Per trovare la prima azienda giapponese bisogna aspettare Toyota, classificata alla ventinovesima posizione, mentre la prima società dell’area euro è la belga InBev, primo produttore mondiale di birra, che si trova al trentaquattresimo posto.
Al di là dell’aspetto statistico, ciò che più fa riflettere è il cambiamento rispetto alla decade precedente quando nella “Top Ten” c’erano tre aziende del Vecchio Continente: la stessa Shell, British Petroleum e la banca HSBC. Sia il settore petrolifero che quello bancario hanno subito cali importanti di capitalizzazione, ma solo in Europa. La società estrattiva statunitense Exxon Mobil mantiene infatti la settima posizione, la stessa della decade precedente.
Le prime società al mondo a stelle e strisce per capitalizzazione sono riconducibili al settore tecnologico (Apple, Amazon, Google, Facebook e Microsoft) o a quello finanziario (JP Morgan).
Per interpretare tale classifica in misura più oggettiva, è necessario tenere in considerazione che il modello capitalistico americano attrae maggiori flussi di capitale, rispetto a qualsiasi altro mercato occidentale.
Infine, la Borsa americana non solo è il centro finanziario mondiale, ma è anche quella che ha registrato negli ultimi dieci anni i guadagni più sensibili: l’80% è l’incremento dello S&P500 in questa finestra temporale, rispetto al +13% dello EuroStoxx 600.
Questo dato spiega perché tra le prime cento aziende della classifica ben 62 siano aziende statunitensi, rispetto alle 22 europee.
L’avanzata cinese
Tra le nuove potenze economiche si fa largo anche la Cina con quattro aziende piazzate nelle prime venti, superando tutte quelle europee.
Credit Suisse in una successiva analisi ha dimostrato come i pesi siano cambiati da un secolo all’altro, passando dalla rivoluzione industriale a quella tecnologica.
Nel 1999 il Regno Unito deteneva il 25% del totale delle aziende nella classifica, seguita dagli Stati Uniti con il 15%, Germania 13%, Francia 11,5% e Russia 6,1%.
Oggi, secondo uno studio stilato invece da Bloomberg, la parte del leone la fanno le aziende a stelle e strisce con il 37,3%, seguite dalla Cina con il 9,6%, Giappone 7,6%, Hong Kong 6,1%, e Gran Bretagna con solo il 4,6%. La Spagna rappresenta meno di un punto percentuale (0,95%), grazie alla presenza di Inditex (marchio Zara) e Santander tra le prime cento aziende per capitalizzazione mentre l’Italia risulta, invece, tristemente non pervenuta non avendo alcuna azienda tra le prime cento al mondo per capitalizzazione.
Considerazioni finali
La gran parte delle società inserite nella “Top List 100” sono anche le più amate dagli investitori e quelle che ricevono le maggiori raccomandazioni d’acquisto da parte degli analisti. La progressiva sparizione da questo Olimpo delle aziende europee continua ad allargare il divario tra i mercati americani e quelli del Vecchio Continente, che soffrono del lento rinnovamento tra aziende industriali a quelle di servizi e tecnologiche, le quali stentano a decollare o perlomeno crescono in misura più contenuta rispetto ad oltre Oceano.
La classifica, per quanto sia solo uno dei tanti elementi di analisi, riflette le difficoltà e la scarsa flessibilità delle aziende europee a tenere il passo di crescita e di innovazione delle corrispettive società americane e cinesi.
Infine, la stessa difficoltà si intravede anche per il Giappone, la cui economia è penalizzata da quasi tre decenni di stagnazione, che ha visto la capitolazione di molte aziende dell’elettronica di consumo, vere icone negli anni 80-90, e che ora fanno fatica a reggere la concorrenza cinese, coreana e taiwanese.