Distratti giustamente dalla crisi valutaria di alcuni importanti mercati emergenti (Turchia ed Argentina) e da quella politica di alcuni stati strategici (Egitto, Ucraina e Tailandia), rischiamo di sottovalutare la tenuta del sistema finanziario cinese sottoposto, sempre più frequentemente, a possibili crisi di insolvenza di alcuni suoi importanti componenti (banche, fondi, trust).
Da anni la Cina è considerata come la vera tigre emergente con tassi di crescita che fino al 2011 hanno superato il 10%, quasi ininterrottamente per oltre un trentennio. Lo sviluppo è stato alimentato dalle esportazioni, agevolate da un cambio volutamente svalutato da Pechino, e dagli investimenti in infrastrutture che hanno modernizzato il Paese, ricostruendo intere città e mezzi di comunicazione.
Tutto questo ovviamente non è stato creato dal nulla ma, come in altre zone del mondo, volutamente facilitato dall’accesso al credito. Ora il Paese è di fronte a nuove sfide per consolidare la crescita in modo più organico ed evitare lo scoppio di bolle finanziarie ed immobiliari molto pericolose, considerata la dimensione economica raggiunta ormai dal gigante asiatico.
La divisa cinese ha iniziato a rivalutarsi già da un paio di anni. Il governo è consapevole che una valuta più forte permetterà alla nuova classe media cinese di incrementare i consumi. Inoltre le esportazioni cinesi sono ormai consolidate nel mondo e possono sostenere anche un rafforzamento del tasso di cambio. La spesa pubblica è invece in grandi difficoltà. Si è ormai costruito quasi tutto: ponti, autostrade, alta velocità, aeroporti e porti. Anche l’edilizia privata ha avuto un’espansione enorme ed il settore immobiliare è arrivato a “fatturare” il 20% del Pil cinese. Gli eccessi sono però evidenti con vere cattedrali nel deserto o città fantasma innalzate in alcune città sperdute del Paese.
Tuttavia come è spesso accaduto in tutto il mondo, non tutti i finanziamenti utilizzati nel settore immobiliare e nelle grandi opere pubbliche sono stati erogati in modo oculato. Molti progetti faraonici non hanno ora alcun ritorno ed i debiti arrivano a scadenza senza l’adeguata copertura. Nei decenni precedenti le burocrazie locali hanno inoltre assistito finanziariamente numerose aziende pubbliche, già decotte, che avrebbero dovuto invece essere chiuse. L’ulteriore agonia ha richiesto ingenti somme di denaro, che sono spesso andate perdute.
Il problema cinese è ora quello di cercare di “americanizzare” i propri cittadini, rendendoli dei consumatori sfrenati o perlomeno più inclini alla spesa che al risparmio. La nomenclatura cinese è infatti consapevole che la crescita del Paese non potrà fare affidamento in eterno sulle esportazioni, mentre le grandi opere pubbliche, che hanno fatto lievitare artificialmente il PIL, sono già state quasi integralmente realizzate. Inoltre l’eccesso di credito ha provocato grossi squilibri e la banca centrale sta cercando di contenerlo e possibilmente ridurlo, per evitare potenziali default, che si stanno già verificando, ormai quotidianamente.
I consumi domestici partecipano alla produzione del Pil per il 48%, molto lontano da quelli americani (68%). I cinesi risparmiano molto perché non hanno “welfare” (sistema pensionistico ed assistenza sanitaria) e devono pertanto accantonare riserve per la loro vecchiaia. Inoltre, malgrado il Paese sia già da un paio d’anni la seconda potenza economica mondiale, il Pil procapite supera solo i 6.000$ consentendo l’accesso a determinati consumi (beni durevoli) ad una fascia ristretta della popolazione non superiore ai 300 milioni di abitanti. Oltre un miliardo di persone, invece, vive ancora quasi esclusivamente di agricoltura nelle fasce rurali con pochi dollari al giorno per sopravvivere, frutto di quello che la terra produce, e non può partecipare all’euforia consumistica che sta contagiando il Paese
Pechino è consapevole della trasformazione che il Paese necessita, ma cambiare la rotta di un transatlantico è impegnativo e ci vorranno diversi anni, nei quali la crescita potrebbe rallentare significativamente. Ma quanto ? Alcuni economisti parlano di crescita sotto il 5% (hard landing), altri sostengono che la marcia cinese manterrà il 7% anche negli anni futuri (soft landing). Personalmente sono più favorevole al primo scenario, in quanto il Paese si trova ad affrontare una stretta creditizia non indifferente già dallo scorso giugno. Ripetutamente alle scadenze trimestrali o semestrali il sistema finanziario va in apnea, perché alcuni debitori non sono in grado di restituire finanziamenti, già in default tecnico ma continuamente rinnovati. Queste difficoltà sporadiche si sono accentuate ed alcune piccole banche locali hanno introdotto restrizioni al prelievo di contanti. Già da alcuni giorni un trust ha dichiarato che non rimborserà un finanziamento di 492 milioni di dollari in scadenza a fine gennaio. La Banca Centrale è di fronte ad un bivio molto complicato: lasciare fallire il trust per dare un segnale autorevole al contenimento del credito facile degli ultimi anni o intervenire ancora una volta per evitare il rischio di un effetto contagio. La scadenza si avvicina, ma gli interrogativi rimangono aperti. Certo non sarà né il primo né l’ultimo campanello di allarme. Il sistema creditizio è esploso negli ultimi tre anni, passando da 9 trilioni di dollari di crediti a 24, quasi il triplo. Un fiume di denaro, parte del quale rischia di non tornare indietro, perché investito in progetti che sono già in default o abbandonati. Così si spiega la crescita cinese dell’ultimo triennio, in cui la banca centrale, come negli Stati Uniti, ha chiuso gli occhi e inflazionato l’economia con una bolla creditizia che sta scoppiando.
La crisi finanziaria turca ed argentina sono oggi sotto i riflettori di tutto il mondo, ma forse il vero pericolo tra i mercati emergenti è la Cina. Fino a quando resisterà ?